Incidente o attacco nucleare, Ingegneria della Resilienza

Ott 20, 2022 | News

Attacco nucleare, siamo organizzati?

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Ingegneria della resilienza, Resilience Engineering

Written by redazione

Per affrontare il delicatissimo argomento, abbiamo scelto due articoli apparsi nei mesi scorsi sull’AGI a cura di Alberto Ferrigolo e su Avvenire a cura di Francesco Palmas. I due autori partendo da basi di ragionamento distinte, offrono però una interessante panoramica e importanti spunti di riflessione sullo stato dell’arte e sulla necessità non solo di prepararsi al peggio (lo stesso problema lo sia può avere anche in caso di incidente ad una qualsiasi centrale nucleare europea), ma di organizzarsi con un vero e proprio piano strategico per far fronte all’evento.

Hamish de Bretton-Gordon, esperto di armi, in una intervista al Telegraph:

“L’Occidente dovrebbe prepararsi al rischio reale di una guerra nucleare”

Il quadro descritto appare chiaro ancora oggi: tensione su Taiwan; i progressi dell’Iran e della Corea del Nord nello sviluppo di armi nucleari; le minacce, più o meno reali, di Vladimir Putin di usare armi nucleari contro Ucraina e Nato.

Ma per Paul Ingram del Center for the Study of Existential Risk dell’università di Cambridge (Center for the Study of Existential Risk (CSER) è un centro di ricerca, destinato a studiare le possibili minacce a livello di estinzione poste dalla tecnologia presente o futura) pare che:

“non ci siano molti preparativi in corso”. Tra le priorità lo studio di piani di evacuazione di massa e le scorte di cibo

Secondo Ingram, se da un lato bisogna evitare il rischio dell’escalation, un buon primo passo sarebbe “soppesare le probabilità di esplosioni qui (che avrebbero un impatto catastrofico immediato) e all’estero (che ci colpirebbe indirettamente, potenzialmente attraverso un inverno nucleare che danneggerebbe i raccolti in tutto il mondo). Difficile ottenere una chiara gestione delle probabilità“, afferma. “È più facile avere una sorta di controllo sulle conseguenze. Ma è necessario un giudizio su quelle probabilità”. E le probabilità, osserva l’Independent, “per quanto difficili da calcolare a distanza con precisione, darebbero un’indicazione del livello di investimento che dovrebbe essere necessario per la preparazione”. Ingram, ad esempio, usa l’approvvigionamento alimentare come esempio: “Dovremmo conservare un sacco di cibo ora? Questo è problematico, perché ciò comporterà ogni tipo di spreco di cibo. Ma allo stesso modo, deve essere qualche domanda sulla varietà delle diverse catastrofi che richiederanno una sorta di conservazione delle scorte alimentari nella nostra risposta. Il governo deve pensarci e valutarlo in modo ragionevole”.

Il modello Usa
Un’altra priorità, dice Ingram, dovrebbe essere quella di decidere chi è responsabile di cosa.

“Ciò che è stato davvero un grande buco nella risposta al Covid”, per esempio, “incredibile, davvero: il rischio di una pandemia era una minaccia alla sicurezza di alto livello, eppure i dipartimenti governativi non avevano un’idea chiara di chi fosse responsabile di quali attività e che tipo di linee di comunicazione dovessero essere ha aperto.

“Questo non deve ripetersi in caso di detonazione nucleare”, dice Ingram, perciò “tra servizi, infrastrutture e dipartimenti governativi, il governo deve essere chiaro su dove risiedono le responsabilità e quindi avere piani di risposta elaborati per l’evento”.

Quindi se per esempio si presume che il ministero della Difesa abbia queste responsabilità, questo “non sarà il dipartimento che risponderà per primo, o fornirà risposte sanitarie o altre risposte di emergenza. Non sarà il dipartimento responsabile dell’alimentazione di tutti, o dei servizi igienico-sanitari, o altro”.

Ci sarà pertanto bisogno di un piano di evacuazione, per portare via le persone se un attacco sembra imminente. Queste evacuazioni sarebbero enormi e limitate nel tempo, ponendo enormi problemi logistici. Potremmo imparare dagli americani, dice Ingram. “Hanno piani molto più sofisticati sull’evacuazione delle città in una varietà di contesti diversi”.

La Gran Bretagna ha costruito molti bunker nucleari durante la Guerra Fredda, una strategia in cui la Finlandia – che confina con la Russia e teme la sua aggressione – ha investito ingenti somme. Il servizio civile finlandese afferma che la sua rete sotterranea di tunnel potrebbe facilmente ospitare i 630.000 abitanti di Helsinki”.

Ingram, tuttavia, vede i bunker come “un approccio individualistico. Penso che dobbiamo pensare molto di più in termini di resilienza all’interno delle comunità”. Ma la conclusione è agra: “Il presupposto in grandi stati dotati di armi nucleari come il nostro”, dice Ingram, “è che c’è poco che possiamo fare per prepararci a una guerra nucleare totale. Ciò non dovrebbe impedirci di prepararci per la guerra altrove, però”.

Le risposte interne a questo tipo di situazione”, dice ancora Ingram, “dovrebbero ancora essere rapide e significative”. E si tratterà molto di più di cercare di garantire “le scorte di cibo e mantenere le infrastrutture critiche nel momento davvero difficile in cui il sole sarà molto ridotto”.

Le esplosioni nucleari, infatti, getterebbero fuliggine e polvere nell’atmosfera. In ogni caso una campagna di informazione pubblica per ora sarebbe prematura, sostiene l’esperto del Center for the Study of Existential Risk dell’Università di Cambridge, secondo cui però, “e le cose iniziano a complicarsi – e abbiamo i russi che fanno minacce significative – e non sembrano esserci vie d’uscita chiare e ovvie, penso che il governo abbia bisogno in quella fase di prendere in considerazione campagne di informazione pubblica”.

Adattamento dell’articolo originale AGI.it

La minaccia nucleare di Putin: qual è oggi il livello di rischio?

(Avvenire del 1 marzo 2022)

Vladimir Putin ha fatto tremare il mondo. Domenica ha ordinato alle forze nucleari russe di tenersi pronte. Ne ha aumentato nel giro di pochi secondi il livello di allerta. Siamo davvero sull’orlo di una guerra nucleare? Bisogna fare una premessa. Come il sistema americano, anche quello russo si basa su quattro livelli di allarme: uno costante, un altro elevato, un altro ancora di pericolo militare imminente e un ultimo di massima allerta. Per ora, lo Zar russo ha posizionato l’arsenale nucleare al secondo gradino di allarme. Una mossa preoccupante, ma tale da non giustificare reazioni irrazionali o di panico. Una cosa grave però è successa: il presidente russo non ha usato i canali di comunicazione ufficiali preventivi, informandone prima gli Stati Uniti. Ha deciso e basta. Sta diventando un ‘nemico nucleare’ meno prevedibile, più pericoloso. Non ha nemmeno precisato in che cosa consista l’accresciuto allarme.

Riguarda forse il personale, la prontezza delle forze o il loro dispiegamento effettivo? Ha forse armato i bombardieri e mandato in pattuglia segreta negli oceani più sommergibili lanciamissili balistici? Al confine con l’Ucraina e nell’exclave russa di Kaliningrad sono schierati missili ambigui: gli Iskander e i Kinzhal. Entrambi possono essere armati con testate nucleari o convenzionali. Il secondo serve per colpire a 1.500-2.000 km di distanza portaerei, centri di comando e controllo, siti di difesa missilistica e città industriali. Vola dieci volte più veloce del suono. Schierato anche in Siria, tiene sotto tiro tutte le capitali europee o quasi. Se fosse impiegato rischierebbe di scatenare una guerra nucleare accidentale? Il rischio c’è, ma è molto basso. Putin non attaccherebbe mai un Paese europeo o della Nato, perché si esporrebbe a una rappresaglia immediata. Nella guerra ucraina non ha bisogno delle armi nucleari, avendo una superiorità convenzionale schiacciante. Ma il mondo sta scivolando piano piano verso scenari più pericolosi.

Il Cremlino, con le ultime dottrine, si è avvicinato alla logica cinese, che gioca volutamente sull’ambiguità per alterare le logiche strategiche nemiche, molto più lineari Mosca ha 4.477 ordigni: 1.588 testate sono sempre in allerta. I bombardieri potrebbero montare più di 600 missili cruise nucleari.

Molte delle nuove armi strategiche russe sono indecifrabili: è saltato il confine, già labile, fra tipologie di sistemi in dotazione, convenzionali o nucleari, tattici o strategici. La cosa rende difficile l’identificazione rapida in caso di impiego effettivo dell’arma. In uno scenario limite, come farebbero gli occidentali a sapere se è in arrivo contro di loro un missile convenzionale o nucleare, sempre che un’ipotesi simile si verifichi mai? Moltissimi sono i rischi che ne deriverebbero. I sistemi di allarme missilistico non sono congegnati per discriminare. Gli strateghi americani hanno in uso il metodo della reazione immediata, del lancio di rappresaglia su allerta: se i loro sistemi radar e satellitari individuano il lancio di un missile, anche solo potenzialmente nucleare, ordinano immediatamente di contrattaccare, prima che le armi nemiche colpiscano gli obiettivi amici. È un sistema paranoico, aggravato dal fatto che ci sono spesso falsi segnali di allarme – l’ultimo nel 2018 – e che il tempo di reazione è inferiore ai cinque minuti. I russi stanno scherzando con il fuoco? L’indeterminatezza che mette insieme dissuasione e volontà di piegare i nemici potrebbe indurre in errore.

Il Cremlino, con le ultime dottrine nucleari, si è avvicinato alla logica cinese, che gioca volutamente sull’ambiguità convenzionale/nucleare per alterare le logiche strategiche nemiche, molto più lineari. In caso di lancio di un missile russo, scatterebbe il sistema americano del ‘launch on warning’, sorta di dente per dente in tempo reale, con la risposta di forze equivalenti a quelle attaccanti, individuate quasi istantaneamente dal sistema di allerta precoce, senza avere la certezza che il missile russo in arrivo monti o meno testate nucleari. Un modo, tutto russo, per imporre la velocità desiderata alle operazioni nucleari e assumere il controllo della dimensione temporale. Se gli americani rispondessero in maniera azzardata, si esporrebbero al rischio di una guerra nucleare prolungata: sarebbe una catastrofe planetaria. Per comprenderlo, basta il motto apodittico delle forze missilistiche russe: «Dopo di noi, solo il silenzio».

Nonostante il declino post guerra fredda, gli arsenali nucleari russi e statunitensi sono ancora stracolmi di testate. Mosca ha 4.477 ordigni: 1.588 testate strategiche sono sempre in allerta. Sebbene i numeri siano segreti, la federazione degli scienziati americani stima che 812 testate armino 812 missili a lancio terrestre, 576 sono sui sottomarini e circa 200 sono pronte ad essere caricate sui bombardieri. Questi ultimi contano oggi due divisioni di 55 aerei pesanti Bear H e 16 Blackjack. Solo una cinquantina di velivoli è effettivamente dispiegata, grazie alle limitazioni del trattato New Start. Ad essi si aggiungono le 4 divisioni di bombardieri a raggio intermedio Tu-22M3. La Russia ne allinea all’incirca 63, ripartiti fra le basi di Belaya, Shaykovka, Olenyegorsk, Dyagilevo, e Mozdok, in Ossezia del sud. Poco chiaro è il numero di armi nucleari assegnate ad ogni bombardiere pesante. Il Blackjack può trasportare fino a 12 cruise AS-15B o altrettanti Kh-102 con testate da 250 chilotoni. Per avere un ordine di idee, la bomba di Hiroshima era molto meno de- vastante, potente ‘appena’ 15 chilotoni. I 50 bombardieri schierati potrebbero quindi montare più di 600 missili cruise nucleari. E il Blackjack può assolvere anche alla missione secondaria del lancio di bombe nucleari a gravità. Gran parte delle testate assegnate ai bombardieri è custodita nei bunker centrali del comando di Mosca. Qualche centinaio è però sempre dispiegato nelle due basi principali della Dal’naya Aviatsiya, l’aviazione da bombardamento strategico.

In questo scenario di distruzione pantoclastica, gli occidentali hanno conservato una potenza di fuoco non meno distruttiva. Putin farebbe bene a non dimenticare che la Nato è un’alleanza nucleare. Cento bombe tattiche americane da 0,3 a 340 chilotoni sono dispiegate in Europa, sotto il regime della doppia chiave, a Keine Brogel, a Volkel, a Buchel e in Italia, a Ghedi Torre. Altre sono direttamente integrate nelle basi statunitensi di Aviano e di Incirlik, in Turchia. La Francia ha il suo deterrente atomico con 280 testate pronte all’uso sui sottomarini e sui cacciabombardieri. Il Regno Unito ne ha almeno 120. Gli americani fanno storia a sé. Hanno 3.800 atomiche, 1.400 delle quali sui missili balistici intercontinentali, terrestri e sottomarini, e 300 sui bombardieri strategici.

È un deterrente sufficiente ad annullare i vantaggi di un attacco nemico e a congelare il rischio di una guerra. C’è però un dato negativo: la nuova cortina di ferro che si è frapposta fra Est e Ovest rischia di mandare al macero tutti gli accordi di disarmo. È a rischio l’ultima vestigia di semipace: il trattato New Start. Se fosse denunciato prima, o non rinnovato nel 2025, la corsa alle armi nucleari riprenderebbe spedita, anche se occorre una precisazione:

la Russia non ha interesse a lanciarsi in quest’avventura rischiosissima. Non ha le potenzialità per aumentare esponenzialmente il suo arsenale. Le sue capacità di produzione sono di molto inferiori a quelle sovietiche, come la ricchezza nazionale, che non le consente voli pindarici.

Come se non bastasse, l’economia russa sarà duramente colpita dalle sanzioni. Forse c’è un freno tangibile all’ulteriore degenerazione dello scenario.

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